Smart working e cultura aziendale
06/03/2020 Autore: Chiara Zaccariotto
Il “lavoro agile” è stato sempre considerato nel nostro Paese un tema delicato, in parte per la difficoltà e le resistenze delle aziende a valutarne gli effetti sulla produzione, in parte perché ha numerose e complesse implicazioni dal punto di vista organizzativo, infrastrutturale, della sicurezza e, non ultimo, culturale.
Integrare lo smart working come modalità lavorativa richiede un’analisi preliminare dei possibili rischi, adeguamenti organizzativi e strutturali e un monitoraggio periodico delle aree di vulnerabilità. Va poi considerato il fattore umano: dev’essere prevista per il personale un’adeguata formazione in merito ai comportamenti da tenere nel momento in cui si è operativi in remoto, che sono necessariamente diversi rispetto a quelli a cui si è abituati lavorando in modalità tradizionale. Se le indicazioni pratiche e operative (per esempio evitare di collegarsi a reti pubbliche con i dispositivi aziendali, o controllare l’aggiornamento delle protezioni antivirus) sono facilmente comunicabili e applicabili, quelle comportamentali implicano azioni di sensibilizzazione che sono tanto più lunghe e impegnative quanto meno diffusa e interiorizzata è la cultura aziendale.
Lo smart working rende più sottile il confine tra vita lavorativa e vita privata.
E’ una condizione a cui le persone hanno cominciato ad abituarsi con l’introduzione dei computer portatili e degli smartphone, e che sta diventando più naturale man mano che le attività quotidiane (come fare la spesa o pagare una bolletta) vengono digitalizzate e rendono familiare un ambiente iperconnesso. Se possiamo forse considerarci gli unici responsabili dei comportamenti che scegliamo di tenere nella vita privata (e anche questo è discutibile, dal momento che l’individuo fa sempre parte di una comunità), sicuramente non lo siamo per quelli che assumiamo nel tempo professionale: cosa facciamo e come agiamo è un onere condiviso, la cui ultima responsabilità è di qualcun altro, e che deriva da criteri e motivazioni che non dipendono dalla nostra esperienza e sensibilità, ma sono stabiliti dalla cultura dell’organizzazione.
C’è una differenza sostanziale tra l’adeguarsi ad un comportamento e il farlo proprio.
Un modello imposto senza prevedere strumenti finalizzati alla sua comprensione, interiorizzazione e condivisione, ha un’efficacia strettamente legata al controllo, esercitato dal contesto lavorativo, dall’ambiente professionale, dalla presenza di colleghi e superiori. Funziona fintanto che sussiste qualcuna di queste condizioni. Al loro venir meno, rivela la sua inefficacia. Diversamente, una cultura aziendale che diventa patrimonio sia comune sia personale porta naturalmente il lavoratore a mantenere principi e comportamenti in qualsiasi situazione.
Quanto detto sta diventando particolarmente evidente in queste settimane, in cui molte aziende sono state costrette a far operare il proprio personale in remoto, con un provvedimento imposto in tempi brevissimi e per un periodo di cui, attualmente, non si conosce con certezza il termine. Proprio per i suoi aspetti culturali però, l’implementazione completa dello smart working richiede tempistiche più lunghe, è un processo di cambiamento che non può essere improvvisato e che va affrontato gradualmente.
Quante aziende italiane erano davvero pronte ad affrontare un momento così? Secondo un’indagine condotta ad ottobre 2019 dall’Osservatorio del Politecnico di Milano dedicato allo smart working, il 56% delle imprese del Paese aveva già avviato progetti strutturati riguardanti almeno due delle leve di progettazione considerate: flessibilità di luogo, di orario, ripensamento spazi, cultura condivisa e dotazione tecnologica adeguata. Nel 10% delle aziende lo smart working era una modalità presente ma gestita in modo informale, mentre il 34% dichiarava di non averlo ancora adottato. All’interno del 56% delle imprese più avanzate, soltanto il 12% aveva completato il processo di integrazione su tutti i fronti considerati. In una recente intervista, il Presidente ANRA Alessandro De Felice ha condiviso una visione critica ma ottimistica: “Non si può dire che tutte le imprese siano state colte impreparate dall’invito a ridurre le occasioni di contatto tra i dipendenti: molte aziende, con una visione più moderna dell’organizzazione del lavoro e già strutturate per lo smart working, hanno potuto continuare l’attività ordinaria forse con qualche disagio ma senza contraccolpi”. Certamente – aggiungiamo – disagi e contraccolpi dipenderanno da quanto a lungo durerà la situazione attuale.
Quel 78% di aziende italiane che non ha completato l’integrazione dello smart working, cosa può fare? A livello pratico la digitalizzazione dei servizi aiuta: device e software che consentono di lavorare in remoto sono reperibili relativamente in modo facile e veloce, soprattutto per le imprese più piccole (generalmente sono queste le meno pronte) che non hanno iter di approvazione e di acquisto lunghi e su più livelli. Dal punto di vista comportamentale e culturale invece, il possibile momento di disagio e difficoltà può (deve) essere affrontato esaminando sia i lati critici del cambiamento sia quelli positivi, promuovendo consapevolezza, partecipazione e problem solving su una logica bottom-up. Lavorando sullo spirito propositivo individuale e collettivo si può riuscire a creare un piano di confronto più paritario e ad attivare un dialogo inedito rispetto alla usuale quotidianità lavorativa. Stimolare alla riflessione, responsabilizzare il singolo rispetto al suo ruolo in azienda, condividendo e ascoltando: i momenti di difficoltà, in cui vengono imposti cambiamenti repentini che possono destabilizzare, rappresentano anche un’occasione per riflettere e analizzare le nostre soft skill, per osservare in modo consapevole i valori che scegliamo di trasmettere e condividere, per arricchire di nuove modalità relazionali i rapporti.
In questi momenti diventa particolarmente evidente quanto in ogni organizzazione conti e influisca non solo la singola persona ma soprattutto quel patrimonio culturale condiviso che, spesso, si tende a dimenticare.