Violenza di genere: il ruolo della Cura nelle aziende
20/07/2020 Autore: Chiara Zaccariotto
Le conseguenze della pandemia hanno sottolineato l’importanza della salute e della sicurezza nelle aziende, portando una maggiore attenzione al benessere dei dipendenti, sviluppando il concetto di “cura”. Nel contesto lavorativo possono emergere segnali di disagio che è importante saper cogliere e interpretare, non solo perché le imprese hanno sempre più un ruolo di responsabilità sociale, ma anche perché questo tipo di attenzione – ormai lo sappiamo – è per le organizzazioni un vettore di crescita. Ad un anno e mezzo dalla nascita della collaborazione, ANRA ha rincontrato Telefono Donna, associazione di volontariato che offre aiuto a donne vittime di maltrattamento, violenza e stalking, per raccontare gli ultimi difficili mesi e per capire, guardando al futuro, quale ruolo possono svolgere professionisti e imprese.
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Tra i suoi tanti effetti collaterali, l’emergenza Covid19 ha portato alla luce in Italia un significativo aumento degli episodi di maltrattamento e violenza sulle donne, principalmente perché nella maggior parte dei casi il pericolo è interno al nucleo familiare, e perché le disposizioni di distanziamento sociale e i divieti di spostamento hanno rappresentato un ostacolo all’assistenza.
Che durante il periodo più critico della pandemia si sia registrato un incremento delle richieste d’aiuto l’ha certificato anche l’Istat: il 1522, il numero di pubblica utilità nazionale per le vittime di violenza e stalking, durante il lock down ha ricevuto 5.031 telefonate, il 73% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. Le persone in difficoltà assistite – soprattutto donne - sono state 2.013 (+59%). E’ una crescita che, va detto, per fortuna non è attribuibile completamente a una maggiore numerosità degli episodi, ma dipende anche dall’effetto delle campagne di sensibilizzazione sul tema che stanno facendo emergere una maggiore consapevolezza, tanto a livello delle persone coinvolte quanto in ambito sociale.
“Il mio virus si chiama Pietro”, campagna di sensibilizzazione promossa nei mesi scorsi da Telefono Donna con il supporto di Fondazione Cariplo e ideata da Maurizio Maresca, ha fatto comprendere con un messaggio tanto breve quanto incisivo come in situazioni di difficoltà e sopruso domestico anche una pandemia possa passare in secondo piano, e anzi rischi di amplificare il disagio. “Il virus esterno, per queste donne, è un pericolo meno rilevante di quello che hanno in casa” racconta Stefania Bartoccetti, fondatrice e Presidente di Telefono Donna “La quarantena le ha costrette a vivere senza sosta ciò che rappresentava già un incubo in precedenza. Uscire, fuggire, rifugiarsi da parenti, amiche, era diventato impossibile”.
Telefono Donna – lo ricordiamo – è un’associazione di volontariato nata nel 1992, che offre a donne in difficoltà (in particolare vittime di maltrattamento, violenza e stalking) assistenza di tipo psicologico, legale, pratico, con un servizio di ascolto attivo 24 ore su 24, sei case rifugio a indirizzo protetto per un totale di oltre 40 posti, una rete attiva in tutto il territorio lombardo, quasi un centinaio tra dipendenti e volontarie.
IMPRESE E RESPONSABILITA’ SOCIALE
E’ un preconcetto ormai smentito che la violenza si annidi in situazioni di disagio preesistente o generalizzato: la maggior parte delle donne che ricorrono all’assistenza di Telefono Donna è giovane (il 30,3% ha tra i 31 e i 40 anni, seguono con il 22,8% le 18-30enni e le 41-50enni), di nazionalità italiana (nel 61,6% dei casi), con un buon livello di istruzione (il 48% ha un diploma superiore, il 33% ha terminato una scuola secondaria e un 12,5% è laureata) e in più della metà dei casi (56%) lavora.
Colpisce soprattutto che quest’ultima percentuale sia in crescita, sono cioè sempre più numerose le donne che denunciano maltrattamenti che sono stabilmente inserite in un contesto professionale. Un dato che dovrebbe portare le organizzazioni a riflettere sul ruolo che possono svolgere nel sensibilizzare e formare sul tema i propri dipendenti. “Spesso il contesto lavorativo rappresenta per queste donne l’unica via di fuga dal disagio familiare” racconta Stefania “ed è in questo senso salvifico. Se nelle aziende le persone fossero più consapevoli su quali sono i segnali da cogliere, su come si riconosce una situazione di difficoltà, su come va approcciata una persona che non riesce a chiedere aiuto, credo che ne beneficerebbe l’azienda in primis, perché una persona in difficoltà inevitabilmente rende meno e non riesce a focalizzarsi sulla propria professione, e anche perché il benessere dei dipendenti – ormai lo sappiamo – è un vettore di crescita per le imprese”.
Se il luogo professionale rappresenta fisicamente un rifugio, cos’è successo durante il lock down? Che conseguenze ha avuto l’imposizione del lavoro in remoto sulle donne che vivono un disagio domestico? “Le ha sicuramente messe in difficoltà, privandole non solo di uno spazio in cui ritrovavano un momento di tranquillità ma anche di quelle occasioni in cui, lontane da casa, durante i tragitti, potevano cercare aiuto, chiamarci” continua Stefania “Però lo smart working ha avuto anche dei risvolti positivi: annullando i confini tra spazio privato e professionale, ha in qualche modo svelato l’intimità delle case, ha rotto un velo, ha permesso di cogliere piccoli ma significativi segnali di una situazione di disagio. Abbiamo ricevuto ad esempio una segnalazione poi verificata da un’insegnante, che durante una lezione online ad un alunno ha sentito delle urla: provenivano dalla stanza vicina, il padre stava picchiando la madre. In ogni caso, il lavoro in remoto è una condanna per chi vive un malessere domestico, e anche in questo senso le aziende dovrebbero avere una maggiore attenzione”.
Si insiste molto negli ultimi anni sul concetto di responsabilità sociale delle imprese, eppure osservando i dati raccolti dai centri antiviolenza gestiti da Telefono Donna il potenziale inespresso è ancora enorme: i vettori di conoscenza dell’Associazione sono principalmente le ricerche su internet (37%), gli ospedali (23,7%), gli amici e parenti (13,7%). Raramente la segnalazione o il contatto arriva da un collega o dall’azienda stessa. “Ci sono moltissimi modi in cui le imprese possono aiutare a migliorare questa situazione: proponendo percorsi di consapevolezza del personale, ad esempio, investendo nella formazione di figure di riferimento interne alle risorse umane, che possano fare da punto di riferimento, o anche semplicemente parlandone insieme alle nostre esperte, come facciamo con cicli di 3/4 incontri in cui diamo le informazioni essenziali per comprendere le dinamiche del disagio, coglierne i segnali, saper offrire aiuto nel modo corretto”.
Questi percorsi sono attivabili in qualsiasi realtà, modulabili, e vengono svolti in cambio di una donazione all’Associazione, erogazione liberale che permette i risparmi di imposte previsti dal Codice del Terzo settore (art. 83 del Decreto Legislativo 3 luglio 2017, n. 117). Chi desidera avere maggiori informazioni in merito può contattare Telefono Donna tramite ANRA – Chiara Zaccariotto zaccariotto.c@anra.it 333 9384220.
Documenti
TelefonoDonna luglio2020.pdf
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