Intervista - Caffè in Rosa con Progetto Itaca | Oltre il labirinto della mente
18/11/2024 Autore: Giulia Gotelli
Si chiude con un appuntamento di grande impatto emotivo in collaborazione con AIG la nuova edizione della rassegna ANRA dedicata ai temi della diversity, equity&inclusion
Mens sana in corpore sano. Questa la locuzione latina tratta dalle Satire di Giovenale che spesso ci divertiamo a utilizzare per riassumere la rilevanza che il benessere di corpo e spirito ricoprono nella vita quotidiana dell'individuo e che è necessario tutelare di pari passo per la garanzia di un'esistenza serena. Tuttavia, a minare l'infallibilità dell'essere umano sopraggiungono numerosi fattori esterni, di cui siamo vittime involontarie: le malattie. Ma mentre le patologie che affliggono il corpo sono caratterizzate da chiare diagnosi, nella maggior parte dei casi spesso ci troviamo a fare i conti con nemici silenziosi e invisibili che si insinuano in uno dei luoghi che riteniamo più sicuri, la nostra mente.
"Chiamiamo disturbi i disturbi della salute mentale perché per nessuno esiste un’eziologia chiara, quindi non è definito e provato come si crea un disturbo e come si manifesta a livello microscopico. Sappiamo bene che ha a che fare con i neurotrasmettitori, con la serotonina, con la dopamina, ma non è provato cosa avviene esattamente. Non abbiamo ancora un avanzamento della scienza che ci spiega esattamente da cosa nascono e come si sviluppano e quindi non possiamo chiamarle malattie: la schizofrenia è un disturbo, perché viene diagnosticato sulla base degli effetti che ha sul comportamento e non in base a un’indagine di un segno di malattia riconoscibile a livello oggettivo".
Questa la spiegazione fornita da Francesco Baglioni, direttore di Progetto Itaca durante l'ultimo appuntamento dell'anno della rassegna Caffè in Rosa svoltasi lo scorso 12 novembre presso la sede di Milano della Fondazione dedicata alla salute mentale, organizzato grazie al supporto di AIG.
Un incontro intimo, che ha visto la platea prendere parte a una vivace discussione su una delle tematiche protagoniste del nostro tempo, su cui abbiamo potuto fare maggiore chiarezza grazie alla disponibilità dei volontari e del direttore del Progetto.
Trasformare una persona che chiede aiuto in una persona che dà aiuto. È questo il cuore di Progetto Itaca, che ci ospita oggi per l’ultimo appuntamento della nostra rassegna Caffè in Rosa. Con noi, il direttore Francesco Baglioni. Francesco, vuoi raccontarci meglio di cosa vi occupate e il cuore della vostra mission?
Come Itaca, siamo nati dall’esperienza di un ristretto gruppo di 6/7 persone che hanno vissuto l’esperienza del disagio psichico sulla loro pelle, nella loro famiglia e hanno voluto provare a farla diventare un’eredità comune per coloro che sarebbero venuti dopo. Abbiamo creato questa associazione 25 anni fa: in questi anni Itaca è cambiata molto, da una piccola realtà è diventata una rete di associazioni presente in tante città d’Italia da Nord a Sud e tutte cercano di replicare i progetti che abbiamo messo a punto nel tempo.
Sono coordinate da una Fondazione che ha sede qui a Milano e che con il tempo ha maturato il ruolo di farsi sentire a livello istituzionale e di sviluppare delle campagne di comunicazione per creare una cultura di salute mentale. Quando oggi parliamo tra noi di salute mentale, l’immagine che ci viene in mente è quella di una persona che sta molto male. La definizione salute mentale è un modo carino per non dire disturbo, malattia, sofferenza mentale. Questo la dice lunga su come percepiamo questo tema, che se approcciato e gestito in modo spontaneo ci permetterebbe di essere risolutivi e trovare un ottimo equilibrio di vita anche con i disturbi maggiori.
Un altro elemento molto importante di questo progetto è che chi si occupa di Progetto Itaca, come anticipato, ha vissuto in prima persona le situazioni che si trova ad affrontare nella quotidianità con i pazienti e le loro famiglie: Francesco, se te la senti, puoi raccontarci la tua storia?
Per me è stata una scelta perché sono stato assunto nel 2005 e mi sono lanciato in un’avventura che mi ha cambiato la vita. Lavorare all'interno del Progetto Itaca ti trasforma più che lavorare in altre realtà del mondo no profit perché si parla di salute mentale, un tema che tocca tutti ed è patrimonio di tutti. Avere a che fare con una persona che ha un disturbo specifico dà la possibilità di vedere una parte di te stesso, di specchiarti nell'altro ma come attraverso un grande zoom. Vedi una debolezza che può essere anche la tua in una persona che ha avuto la malasorte di ammalarsi e di avere una vita messa a dura prova da quella malattia. Per me si tratta di cercare di dare aiuto seguendo uno stile di reciprocità: nei nostri rapporti si cerca di stare alla pari, non c’è una persona che aiuta un’altra, ma c’è una persona che incontra un’altra, c’è uno scambio paritetico: più è pari quello scambio, più le persone riescono ad aiutarsi reciprocamente. Questa la base dell'approccio creato da Club Itaca, il posto in cui ci troviamo ora, la prima esperienza italiana di un modello di inclusione sociale diffuso a livello mondiale in centinaia di centri che hanno questa particolarità del supporto tra pari.
Ho conosciuto però anche tante esperienze molto dolorose: vedere una persona cara suicidarsi, un'esperienza dilaniante e con la quale non si fa mai pace, a cui non si riesce a trovare un senso. Ho sempre avuto questo timore dentro di me di avere figli e che questi figli si ammalassero di un disturbo mentale. E poi questa cosa incredibilmente è successa. Mio figlio è nato ad agosto del 2005, qualche mese più tardi del Club Itaca. Quando è nato, questo pensiero si è realizzato e non è stata la catastrofe di vita che mi aspettavo e che ho sempre cercato di allontanare come visione ma è stata un’esperienza molto evolutiva all’interno della famiglia: per me, per mia moglie, per lui stesso. Un’esperienza di incontro molto ravvicinato con le proprie fragilità che in realtà, se vissuta nel modo giusto, non dico che diventa un dono perché sarebbe eccessivo, ma diventa sicuramente una grossa risorsa che porta a un livello più profondo di contatto con sé stessi e una maggiore capacità di entrare in relazione con l’altro.
Grazie di aver condiviso la tua esperienza personale. È sicuramente il modo in cui arriva più profondamente anche il messaggio. Passiamo ora a un argomento che a noi Risk Manager sta molto a cuore, parliamo di numeri. Secondo un recente studio della Società italiana di psichiatria, negli ultimi 3 anni i disturbi mentali sono aumentati del 28%. Un allarme che fa eco a quello lanciato dall’OMS, in merito alla concreta possibilità che la prevalenza delle patologie psichiatriche stia per superare quella delle malattie cardiovascolari. Quale quindi la fotografia del nostro Paese in questo ambito?
È difficile trovare numeri e parlare di una prevalenza misurata, possiamo parlare di una prevalenza stimata ma anche in questo caso troviamo molta approssimazione. Per avere numeri certi, possiamo dire che quasi un milione di persone è in carico a centri di salute mentale pubblici sul nostro territorio ma moltissimi si rivolgono al privato e avere statistiche dell'ambito privato è molto difficile.
Un altro numero che ci aiuta molto è la terapia farmacologica che è veramente univoca: se prendi un farmaco hai un disturbo chiaro preciso per cui hai bisogno di una prescrizione. Analizzando il rapporto dell’Aifa uscito in queste ore ci accorgiamo di quanto tutte le nazioni occidentali siano medicalizzate: in Italia si assumono 1899 dosi al giorno su 1000 abitanti quindi mediamente arriviamo a prendere quasi due dosi di medicinali a testa al giorno. È un dato che continua a crescere a ritmo deciso anche in conseguenza all'invecchiamento della popolazione.
Gli psicofarmaci, invece, sono una classe di farmaci che sta al quarto posto per consumo e la macro area del sistema nervoso centrale parla di 97,8 dosi giornaliere per 1000 abitanti quindi circa il 10%. All'interno di questa percentuale troviamo alcuni farmaci tipici del nostro ambito di salute che sono benzodiazepine (45,6 dosi), antidepressivi (47,1 dosi) e antipsicotici per il trattamento di disturbi della salute mentale nell’ambito del rapporto con la realtà (1%). Questo ci porta a realizzare che l’1% della popolazione ha avuto una diagnosi o sia in terapia per un disturbo importante della salute mentale tendenzialmente cronico, come tutte le forme della schizofrenia.
Pur essendo un fenomeno in crescita, i disturbi della salute mentale rimangono un “nemico invisibile”, un elefante nella stanza che non vediamo o non vogliamo vedere. E fra le patologie in aumento troviamo ansia e soprattutto depressione, un disturbo ancora oggi difficilmente riconoscibile e per cui la prevenzione è quanto mai fondamentale. La depressione da fuori spesso non si vede, questo potrebbe essere uno degli elementi che portano a una sottovalutazione generale del problema, ma quale potrebbero essere gli altri e come possiamo risolverlo?
Noi siamo abituati a vedere la rappresentazione di un disturbo mentale con immagini stereotipate di persone chiuse, emarginate, isolate. Questa immagine però non corrisponde più alla realtà: oggi la depressione è un’esperienza comune a molte persone inserite nella società che hanno famiglia hanno figli, vivono in situazioni di benessere economico, vanno in palestra. È un fatto che questo tipo di disturbo porti a fare finta di niente, a fare molta fatica a chiedere aiuto e a mettere una maschera per mantenere quell’immagine di efficienza che per noi è diventata sinonimo di salute.
Nella nostra cultura, molto spesso definiamo la salute come fare bene delle cose, fare più cose possibili, essere presenti in ogni ambito al meglio di noi stessi con un’immagine piacevole, con dei modi garbati e quindi confondiamo il concetto di salute con il concetto di abilità, di presenza. Questo probabilmente ci impedisce di guardarci dentro, di vedere da vicino le nostre fragilità, di riconoscerle e poi di chiedere aiuto.
Siamo abituati a considerare il disturbo mentale come inguaribile, come a qualcosa che è legato all’esistenza, alle relazioni, a qualcosa nel rapporto con gli altri, a qualcosa di ineffabile, di indefinibile. Tutto questo lavora contro la cura, noi dobbiamo avere il coraggio di dire che si tratta di disturbi trattabili. Non è facilissimo trattarli: è difficile riconoscerli, accettarli e chiedere aiuto ma quando chiedi aiuto c’è una buona risposta farmacologica, che a volte ha delle particolarità. Alcuni farmaci, dopo due o tre settimane di assunzione, non hanno effetto e anzi ti fanno stare peggio di prima ma dopo un po’ di tempo si comincia a stare molto meglio, in particolare gli antidepressivi di ultima generazione. Le persone tendono a smettere di prenderli e a diffondere l'idea che non servano: si crea così una cultura del passaparola, non basata sullo studio clinico.
Come sai, la nostra Associazione si occupa di rischio. E in ambito di salute mentale all’interno del mondo professionale, uno dei principali è rappresentato dal burn out, che si manifesta con sintomi molto simili alla depressione ed è ugualmente di difficile previsione. Quali strumenti possiamo adottare, all’interno delle aziende, per prevenire questo disturbo?
Siamo all’inizio di questa riflessione e di questa consapevolezza da parte delle aziende che stanno facendo moltissimo in questo ambito anche in seguito all’esperienza del Covid.
Parlando di burn out parliamo prima di tutto di stress e dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Sappiamo benissimo che l’interazione che abbiamo con l’ambiente è causa di uno stress: ma lo stress non è cattivo, è un’occasione di adattamento e quindi di crescita e di cambiamento positivo per noi, è funzionale al nostro benessere. È la risposta fisiologica che il nostro organismo dà per mantenere l’omeostasi, l’equilibrio ottimale di tutti i valori organici per vivere bene in quell’ambiente preciso.
C’è anche lo stress cattivo e parliamo quindi di cortisolo, l’ormone prodotto dal surrene su influsso del cervello. Il cervello lancia il segnale al surrene di produrre il cortisolo perché si trova sottoposto a delle richieste di prestazione eccezionali: un picco di lavoro, una corsa rapida per prendere il treno... il cortisolo entra in circolo insieme all’adrenalina e alla noradrenalina per alzare il livello della nostra prestazione. La combinazione di questi tre fattori cambia la nostra omeostasi e lo prepara per una super prestazione. Questa situazione deve però essere transitoria: il cortisolo in circolo deve essere riassorbito il prima possibile: il segnale di iperattivazione dell’organismo viene sopito e tutto torna alla normalità.
È chiaro invece che se continuiamo a lanciare questi messaggi di produzione del cortisolo, manteniamo questi livelli non normali nel nostro organismo e questo stress va verso il cronico seguendo tre fasi: allerta, resistenza ed esaurimento. Quando siamo in uno stress cronico, siamo sempre in una fase di resistenza che ha degli aspetti positivi perché facciamo benissimo tutto quello che ci tocca fare. Nel lungo termine diventa insostenibile perché non possiamo produrre cortisolo in continuazione, a un certo punto finisce e quando finisce abbiamo un crollo, lo stress ci porta un esaurimento fisico.
Il nostro cervello lancia un messaggio, proviamo un malessere strano e indefinibile, uno stato in cui perdiamo la voglia e il piacere di fare cose che ci hanno sempre dato un ritorno emotivo. In quel caso, di chi è la colpa? Del mio capo, del mio collega, di questa società, di una serie di cose: è il momento in cui lo stress intacca la relazione e rovina rapporti costruiti in anni di abnegazione e impegno. Qualunque stress dei nostri organi è percepito e riconosciuto e porta un cambiamento che può essere adattivo in fase acuta o disadattivo in fase cronica. Cado in uno stato di incapacità.
Il burn out non è un disturbo mentale, è una condizione psicofisica che può essere un fattore predittivo della depressione, dell’ansia patologica e di tanti disturbi. Le fasi del burn out possono essere osservate dall’esterno: una fase "dell’affaccendarsi" con molto impegno ma pochi risultati, una fase di "distacco" con aspettative che non coincidono più con realtà, una fase "emotiva" che è quella della rabbia e infine una fase "distruttiva" dove c’è una tendenza a rovinare tutto e dove la persona diventa un problema per l’organizzazione. Una fase difficile da gestire sia a livello dell’organizzazione che dell’individuo perché viene preso come problema organizzativo: la persona è un ostacolo per l’organizzazione, che inizia a pensare a come incentivarne l’esodo.
Come prendiamo questa patata bollente? Stiamo cercando di capirlo, un elemento su cui possiamo avere una certa presa è la gestione delle relazioni: una relazione di ascolto e inclusione, di prevenzione può ridurre molto anche a livello secondario le situazioni di burn out ad esempio concedendo periodi di malattia o ferie e prendendo alcune policy molto chiare in merito alla valutazione del lavoro e dei feedback lavorativi. Cosa può fare l’azienda? Avere ruoli organizzativi molto chiari, capire bene la cornice di lavoro in cui si può vedere una buona performance, non introdurre la cultura del lavoro oltre l’orario stabilito e l'introduzione di strumenti di bilanciamento vita/lavoro.
Al termine dell'incontro, una curiosità sollevata dal pubblico ha riguardato proprio il tema della prevenzione, nell'ambito di una vita quotidiana "normale": come possiamo quindi prevenire il manifestarsi di disturbi della salute mentale, quando potenzialmente chiunque di noi potrebbe esserne affetto?
I disturbi mentali hanno diverse radici: una biologica, una legata al rapporto con l’ambiente e una legata agli stili di vita e ai nostri comportamenti. L’ultima radice può essere intesa come il rapporto con l'ambiente fisico e relazionale: tutti noi abbiamo un certo rischio specifico più o meno alto. Quello non basta a sviluppare la malattia, devono intervenire ulteriori fattori che poi portino a manifestare apertamente la malattia con dei sintomi diagnosticabili, come l'uso di sostanze psicoattive in soggetti predisposti, soprattutto entro i 28 anni. Anche l’ubriacatura è una psicosi.
È provato che l’attività fisica sviluppa i neurotrasmettitori che costruiscono la nostra salute mentale quindi mantenere una regolare attività fisica è un altro fattore protettivo. La prevenzione è consapevolezza.